mercoledì 19 febbraio 2014

LA DEMOCRAZIA CORINTHIANA

Negli anni ottanta  il Sudamerica era vittima di terribili dittature. Tutti ricordano Pinochet e il “Garage Olimpo” in Argentina, ma in Brasile le cose non è che fossero migliori. I militari al governo avevano tolto molti diritti civili e la gente viveva sotto la paura delle squadre della morte o nella paura di essere tradotte in carceri dai quali non si usciva con facilità. In questo contesto nella prima metà degli anni ottanta avvenne un miracolo.
Il Corinthians decise di rompere le regole. Nonostante fosse una squadra di incredibile talento (tutti assieme c’erano gente come Socrates, ma anche Wladimir e Walter Casagrande – che poi giocò anche nel Torino) decise di proclamare l’autogestione. La squadra si rifiutò di riconoscere l’autorità dell’allenatore e per tre anni mise in piedi una sorta di “autogestione” che venne definita “Democrazia corinthiana”. Qualcuno la definì anarchia. In realtà decisero tutti assieme che da un certo momento in poi, la democrazia, alla quale tutti nel Brasile, aspiravano l’avrebbero messa in pratica loro. Avrebbero votato e deciso su qualsiasi cosa. Anche le più insignificanti. E il voto di ognuno valeva lo stesso di qualsiasi altro. 
Quello del magazziniere come quello del presidente. 
Che poi era un altro filosofo e pure rivoluzionario: Waldemar Pires. 
E votavano su tutto, dal menù del giorno alle strategie di gioco e di mercato. Persino in bus, durante le trasferte stabilivano per alzata di mano se fermarsi o meno per le necessità fisiologiche. Qualunque cosa diventava di interesse collettivo, compresi i contratti individuali, ragionavano valutando con attenzione le disponibilità economiche del club. E per la prima volta nella storia del calcio brasiliano, sulle maglie del Corinthians apparvero anche le scritte pubblicitarie. Ma non si trattava di marche e loghi per prodotti di consumo, ma di invocazioni perché venisse posto fine alla dittatura militare: "Elezioni dirette subito" oppure “Io voglio votare il presidente”. E infine scrissero sopra la parola magica: DEMOCRAZIA. 
La meravigliosa democrazia del Corinthians, di giocatori che lottavano rischiando del proprio per rivendicazioni sociali non solo sul campo, ma anche nelle piazze.
Quando vinsero il campionato entrarono tutti in campo con un grande striscione: “Non importa se sul campo vinci o perdi, importa solo se lo fai in democrazia”. Questi erano quegli uomini.
E, da romantico del calcio, mi piace pensare che sia stato anche grazie a loro che nel 1985 finalmente quello che avevano sempre cercato, arrivò. Mi piace pensare che sia stato proprio Socrates con i suoi compagni a dare la spallata finale a quella merda di dittatura militare. In un’intervista il “dottore” affermò:
“La libertà è una cosa che genera responsabilità, bisogna saper amministrare questi due aspetti. Il calcio è l’unica azienda nella quale il lavoratore è più importante del padrone. Il calciatore può essere osteggiato, limitato, ma alla fine è lui ad avere le carte migliori per cambiare lo stato delle cose. "
Questa certezza si cementò nello spogliatoio del Corinthians, radici che nessuno è più riuscito a estirpare. Ed è stato un processo che ha aiutato i brasiliani a sollevare la testa e a liberarsi dopo vent’anni dell’oppressore.


lunedì 10 febbraio 2014

DARIO HUBNER: Il bomber con la sigaretta

Dario Hübner nasce a Muggia, in provincia di Trieste, il 28 aprile del 1967.
Gioca come attaccante nella squadra del suo paese, la Muggesana fino all’età di 20 anni alternando il calcio al lavoro di carpentiere. 
Il destino però vuole che il ragazzotto molli le lamiera d’alluminio e sfondi nello sport; così, dopo una buona stagione al Pievigina in interregionale condita da 10 reti, diventa un calciatore professionista venendo ingaggiato dal Pergocrema in serie C2. L’esperienza nel cremasco dura solo una stagione dopodiché il buon Dario finisce a Fano. Qui resta tre stagioni, dall’89 al ’92 vincendo un campionato ed una classifica cannonieri (nella stagione 1991-92) sotto la sapiente guida di un giovane Francesco Guidolin e si guadagna il soprannome che lo seguirà poi in tutta la sua carriera: il bisonte o, nella versione indiana, Tatanka. 
Nel 1992 si sale ancora di categoria, serie B, destinazione Cesena.
Hubner giocò 4 stagioni nel Brescia
 In bianconero Hübner cresce ancora fino a vincere la classifica marcatori nella stagione 1995-1996 con 22 gol. I grandi club cominciano ad interessarsi a lui, ma vuoi per un motivo, vuoi per un altro, il trasferimento non si concretizzerà mai ed il giocatore rimarrà in Romagna. 
La serie A però è un richiamo troppo forte ed il bomber italo-austriaco ha ampiamente dimostrato di meritarsela. Alla veneranda età di 30 anni finalmente il “bisonte” riesce a coronare il sogno di giocare nella massima serie italiana grazie al Brescia, che punta forte su di lui per rinforzare il reparto offensivo. L’impatto iniziale è devastante: gol all’esordio contro l’Inter (in una partita che verrà ricordata però per il debutto di Ronaldo con la maglia neroazzurra) e tripletta alla Sampdoria alla seconda giornata. Alla fine i gol saranno 16 e non basteranno a salvare le rondinelle. Si riparte allora dalla serie B, altro giro, altra corsa e Tatanka, a suon di reti, trascina i ragazzi allenati da Carletto Mazzone alla promozione. 
La stagione successiva fa coppia in attacco con un mostro sacro come Roberto Baggio, anche se spesso il tecnico romano gli preferisce l’albanese Igli Tare. Lui non si scompone e a fine campionato raggiunge quota 17 reti. Le troppe esclusioni minano però il rapporto con la società ed allora nel 2001 si trasferisce al neopromosso Piacenza per 6 miliardi di vecchie lire, una cifra considerevole considerando l’età avanzata del giocatore. Ma come dice un vecchio proverbio, gallina vecchia fa buon brodo e Dario vive la sua migliore stagione di sempre, realizzando 24 gol, salvando la sua squadra e vincendo anche il titolo di capocannoniere (unico giocatore a riuscire a vincerla in tre categorie differenti). Nell’estate del 2002 viene aggregato alla rosa del Milan per la tournée americana ma purtroppo non riuscirà mai a lasciare il segno nelle 3 apparizioni.
Hubner durante la tournée estiva con il Milan
L’avventura sui colli piacentini termina nel 2003 rescindendo il contratto e trasferendosi all’Ancona. Nella tragicomica squadra costruita dal presidente Pieroni, che poteva contare su vecchie glorie in declino come Jardel, Hedman e Maini, Hübner non ingrana mai e così, già nel mercato di riparazione invernale, cambia casacca e va a Perugia, dove segnerà i suoi ultimi 3 gol in serie A. 
Nel 2004, piuttosto che accettare un ruolo da comprimario in una grande squadra, decide di ripartire da Mantova, C1. La scelta viene però ripagata dalla promozione in serie B e dopo questa gioia Tatanka dice addio al professionismo. 
Riparte dai dilettanti bresciani dove segna con una facilità disarmante e dove viene anche squalificato per 1 anno (squalifica ridotta poi a 6 mesi)dalla LND per aver sottoscritto un contratto retribuito da professionista. 
 Appenderà le scarpe al chiodo solamente nel 2011, dopo 336 gol, all’età di 44 anni. Carattere schivo ed antidivo per eccellenza, Dario Hübner ha solo due debolezze: la grappa e le sigarette. Narra la leggenda che addirittura se ne fumasse una nell’intervallo tra il primo ed il secondo tempo di una partita. 
Il suo presidente al Brescia, Gino Corioni, disse di lui: “Se avesse fatto vita da atleta sarebbe stato il più grande giocatore italiano di tutti i tempi”. 
Questo potrebbe anche essere vero, ma siamo sicuri che lui ripensandoci abbozzerà un sorriso e ci fumerà sopra una sigaretta. Semplice, come fare gol.

Una classica foto del Bisonte a New York

venerdì 7 febbraio 2014

JOEY BARTON: Il Bad boy d'oltremanica


Joey Barton ai tempi del City
Joseph Anthony "Joey" Barton nasce a Liverpool il 2 settembre 1982. Cresce in una situazione familiare difficile venendo allevato solo dal padre e dalla nonna a causa della scomparsa della madre e frequenta insieme al fratello cattive compagnie, che, probabilmente, hanno influito sul suo comportamento aggressivo e facilmente irascibile.
 In campo è un mediano tutto muscoli e grinta di cui gli scout dell’Everton si accorgono presto e lo inseriscono nelle loro giovanili in cui rimarrà fino all’età di 15 anni, quando verrà scartato per motivi di statura.
 Joey non si abbatte e riesce a strappare un contratto con il Manchester City; lì completa la trafila nel settore giovanile e nel 2002 esordisce in prima squadra.
 Non passa molto tempo prima che i dirigenti dei Citizens si rendano conto dei problemi caratteriali del ragazzo. All’inizio della stagione 2004-2005 arriva il primo cartellino rosso contro il Tottenham in una gara di FA Cup per un litigio con l’arbitro (fino ad oggi in Premier League il conto è salito a 4, quasi tutte per più di una giornata). 
Da qui in poi è una vera e propria escalation di violenza: a dicembre dello stesso anno, alla festa natalizia della squadra spegne un sigaro nell’occhio di Jamie Tandy, giocatore della squadra primavera, a causa di uno scherzo non propriamente gradito. Nel maggio 2005, sotto effetto di un abuso di alcool, investe un uomo nel bel mezzo di Liverpool. Il rapporto con il club comincia a scricchiolare, ma lui non fa niente per risanarlo, anzi dà il colpo di grazia: e’ il 2007 quando, appena uscito da una clinica riabilitativa per sportivi con problemi comportamentali, sferra un cazzotto in pieno volto al suo compagno di squadra Ousmane Dabo, ex inter, procurandogli un parziale distacco della retina e guadagnandosi così 100.000 sterline di multa e la sospensione fino al termine della stagione. Il Manchester City non ne può più; dopo 130 partite e 15 gol è chiaro che la sua storia ai blues debba finire qui.
"Big Sam" e Joey il giorno della presentazione con il Newcastle
 “Big Sam” Allardyce è un suo grande ammiratore e, per 8 milioni di euro, se lo porta con sé a Newcastle nell’intento di dare maggior grinta al centrocampo dei Magpies. A far notizia però non sono le sue prestazioni in campo, ma ancora una volta fatti extracalcistici: nel dicembre 2007 lui, suo fratello e suo cugino pestano a sangue due giovani di Liverpool, causandogli gravi ferite e venendo puniti con 77 giorni di carcere. La situazione ormai è fuori controllo ma come per incanto c’è sempre una squadra in Premier a volerlo. 
Quindi, anche questa volta, fa le valigie e va a giocare per il Queens Park Rangers. Siamo nel 2011 e a Londra “the battery boy” diventa un idolo incontrastato della tifoseria, tanto da guadagnarsi la fascia di capitano, che indosserà anche durante l’ultima giornata del campionato 2011-2012 quando il QPR, in piena corsa salvezza, deve fare risultato contro il Manchester City che necessita solamente di una vittoria per conquistare la Premier League. Dopo 53 minuti di gioco un raptus di follia prende possesso di Barton che sferra nell’ordine: una gomitata in faccia a Tevez e, successivamente all’espulsione, un calcio ad Aguero ed una testata a Kompany. La condanna da parte del mondo calcistico inglese è unanime e Joey si becca una maxi-squalifica di 12 giornate. 

 
Imperdibile il filmato con il commento di Massimo Marianella

Come tutte le altre squadre in passato, anche il QPR non sopporta più le bizze del giocatore e decide, dopo avergli tolto la fascia di capitano e tagliato 6 settimane di stipendio, di metterlo sul mercato.
 In Inghilterra non lo vuole più nessuno ed allora viene imbastito uno scambio di prestiti con l’Olympique Marsiglia che riguarda anche il camerunense M’Bia. In Francia passa solo una stagione, ma fa in tempo a litigare con Ibrahimovic e, tramite Twitter, con Thiago Silva dandogli addirittura del "transessuale". 
Ora è tornato al QPR e gioca in Championship, l’equivalente della nostra Serie B, con la solita grinta e ignoranza di sempre, perché solo così sa vivere Joey Barton, dentro e fuori dal campo come un vero “Bad Boy”.


Una versione poco credibile di Joseph Anthony "Joey" Barton

ODE AL CALCIO PROVINCIALE


Un giorno diventi grande ed arrivi in prima squadra. Non è come te lo sei sempre sognato, uno spogliatoio patinato pieno di primedonne, in una qualche squadra importante, magari nel calcio professionistico.
E invece no, sei tra i dilettanti, magari in un “top club” di terza categoria, ma la sudditanza che c'è nello spogliatoio è la stessa. Gli anziani del gruppo sono la voce più ascoltata e temuta come in ogni cultura antica che si rispetti. Tu devi dimostrare a tutti di meritarti il posto, perché soprattutto nel calcio la meritocrazia esiste ed il posto tra i titolari bisogna guadagnarselo con la fatica ed il sudore; devi dimostrarlo sul campo. Già, il campo. Per te che hai sempre sognato palcoscenici come San Siro, il Camp Nou o il Bernabeu quello del paese è quasi un insulto. Trovare un rettangolo verde decente è come fare il terno al lotto; molto più spesso sono in sabbia o sono i famosi “campi di patate” che ti permetteranno però di giustificare l'errore commesso “eh, il rimbalzo non era regolare, per quello che ho sbagliato!”.
La forma fisica poi è la cosa più soggettiva che esista. Trovi di tutto, dall'attaccante di peso nel vero e proprio senso della parola passando per il palestrato che vuole emulare le gesta di Cristiano Ronaldo, al regista di centrocampo modello comodino.
Durante l'inverno poi i problemi aumentano e iniziano i dubbi amletici, partendo dal classico “pioverà o non pioverà?” che quasi ti rende insonne, arrivando all'evergreen “ferro o gomma?”. La domanda spesso è retorica, perché si sa, i difensori, soprattutto quelli più ruvidi (e più scendi di categoria più il numero si avvicina alla totalità) le scarpe con i tacchetti in ferro le tengono appese in camera come fossero un santino, con all'interno una calamita che si attacca, con facilità disarmante, agli stinchi e alle caviglie dei malcapitati avversari.
Arriva la domenica.
Il giorno sacro per te, non tanto per la messa nonostante la trafila nella squadra locale dei chierichetti, ma perché é il giorno della partita. In campo il gioco scarseggia, i contrasti e soprattutto le botte fanno da padroni incontrastati ma tu sai che questo è l'anno buono, e....vinci, vinci e continui a vincere fino a quando il campionato di Terza categoria girone H è tuo. Tuo e dei tuoi amici, perché spesso i tuoi compagni, sono gli stessi membri della tua compagnia del sabato sera. E' l'apotesi, tutto ciò che hai sempre sognato. Improvvisamente tra San Siro o il Comunale del paese non c'è più differenza perché adesso ti senti un vincente, un Giocatore vincente.
Calcio di provincia = calcio minore?
Tenetevelo per voi questo questo paragone, perché come diceva Antoine de Saint Exupery ne “Il piccolo principe” l'essenziale è invisibile agli occhi e probabilmente la partita più bella è quella che non vedrete mai in tv.



giovedì 6 febbraio 2014

THE CLASS OF '92: quando dei novellini ti cambiano il calcio


Manchester, inizio anni ’90. Da un lato la città è in rivolta per l’approvazione della community charge (detta anche poll tax) da parte del governo Thatcher, dall’altro sta assistendo alla rivoluzione della scena musicale rock portata dagli Stone Roses e da un gruppetto chiamato Oasis, formato da due fratelli, Noel e Liam Gallagher, tifosi sfegatati del Manchester City.

VOCI "BLUES" - Noel e Liam Gallagher degli Oasis
A godere calcisticamente però è l’altra parte di Manchester, sponda United, che con l’arrivo di Alex Ferguson in panchina comincia a vincere campionati in ripetizione a partire dalla stagione 1992-1993. E’ proprio il 1992 l’anno d’oro dei Red Devils; non tanto per ciò che accade in prima squadra ma soprattutto per quello che succede ai piani inferiori. In città non si parla altro che della bravura della formazione giovanile dello United e così anche Sir Alex comincia ad interessarsene. E’ sugli spalti in occasione della finale di FA Youth Cup che i piccoli diavoli rossi stravincono contro il Crystal Palace e “the scot” si stropiccia gli occhi ed annota questi numeri: 5, 6, 7 e 10. 
 “Questi potrebbero farmi comodo” pensa tra sé e sé. Come è capitato spesso nel corso della sua carriera la vecchia volpe scozzese non si sbaglia perché quei quattro giocatori sono rispettivamente: Gary Neville, David Beckham, Nicky Butt e Ryan Giggs. 

Busby Boys - Gli sfortunati ragazzi di Mister Busby
Questo quartetto successivamente si allargherà fino a comprendere anche Paul Scholes e Phil Neville e loro sei verranno soprannominati “the Ferguson’s Fledglings”, letteralmente “i novellini di Ferguson”. Il richiamo ai Busby boys, gli otto giocatori provenienti dal vivaio che fecero la fortuna del club per tre stagioni prima di morire nel disastro aereo di Monaco di Baviera del ’58, è forte ma quanto mai azzeccato. 

Da questo momento in poi lo United diventa un’armata invicibile soprattutto in Inghilterra aggiudicandosi cinque Premier League in sette anni. A mancare però è la definitiva consacrazione a livello europeo. Il 1998-1999 è la stagione giusta per rompere questo tabù, ma questo ai ragazzi d’oro non può bastare dato che sono i primi nella storia del calcio inglese a riuscire a realizzare un Treble, ovvero vincere tre competizioni diverse nella stessa stagione. 


FESTEGGIAMENTI - Si celebra uno storico "treble" tra le vie di Manchester

A rendere possibile tutto ciò furono vere e proprie imprese calcistiche come la vittoria ai supplementari contro l’Arsenal nel replay della semifinale di FA Cup grazie ad una splendida rete di Ryan Giggs al 109’ che molti suoi ex compagni, parafrasando Phil Neville, ricordano ancora come “il più bel gol mai visto”. Quella rete spianò la strada verso la finale vinta poi agevolmente per 2-0 contro il Newcastle del mammasantissima Alan Shearer.

                    Decisivo - Ecco lo strepitoso gol di Giggs contro l'Arsenal

Oppure la fantascientifica rimonta ai danni del Bayern Monaco il 26 maggio del 1999 nella finale di Champions League disputatasi al Camp Nou di Barcellona con due gol nei minuti di recupero a ribaltare l’1-0 iniziale di Mario Basler.

E’ proprio sul tetto più alto del calcio europeo che verrà consacrata una delle più grandi generazioni calcistiche di tutti i tempi, vincendo tutto ciò che si poteva vincere, perché novellini o no “the class of ‘92” ha cambiato il mondo del calcio.

THE CLASS OF '92 - Giggs, Butt, Beckham, Gary Neville, Phil Neville e Scholes

mercoledì 5 febbraio 2014

MAURO ICARDI: QUANDO IL GIOCATORE E' (TROPPO) SOCIAL

Ormai fa più notizia quando lo si vede in campo piuttosto che in posa per una foto su qualche social network.
Questa è la precoce parabola distruttiva che sta attraversando Mauro Icardi, ragazzo ventenne di professione attaccante dell'Internazionale F.C. mica pizza e fichi.
Doveva essere l'anno della sua realizzazione professionale: titolare in una grande squadra dopo la stagione in doppia cifra alla Sampdoria e fiore all'occhiello dell'ultima campagna acquisti dell'era Moratti; ma dopo un buon inizio il ragazzo di Rosario è scomparso dai radar neroazzurri per riapparire grazie ai "cinguettii" su Twitter. 

Una cotta d'amore comprensibile per l'età del ragazzo, se solo non fosse per la "protagonista" femminile della storia che rende la faccenda una vera e propria manna dal cielo per i cronisti sportivi e non. La donna in questione si chiama Wanda Nara, seducente modella argentina ma soprattutto ex moglie di Maxi Lopez, compagno di Icardi ai tempi della Sampdoria. 

LUI, LEI E L'AMANTE - Galeotta fu la cena in barca

Da qui in poi il patatrac sportivo di Maurito. La testa per giocare non c'è più, persa nel suo folle amore ed il fisico comincia con i primi acciacchi, con una pubalgia che proprio di andarsene non ne vuole sapere e ciò non può fare altro che alimentare le battute sulla liaison. Su twitter il giocatore è uno dei più presenti dell'intera Serie A, con foto galeotte e frasi sdolcinate per Wanda, mentre in campo mette piede solo in nove occasioni (di cui la maggior parte subentrando dalla panchina) segnando due reti. 

IN VERSIONE POETA - Maurito in versione Dantesca

 Ora il dilemma sorge spontaneo: è possibile recuperare il Maurito della stagione scorsa o ormai è destinato ad essere un oggetto misterioso in questa Inter?
Penso che, per quanto possibile, l'Inter debba cercare di recuperare il giocatore, sia per lo sforzo economico fatto a giugno per prenderlo, sia per una questione di necessità, in quanto un attaccante con le sue caratteristiche è proprio ciò di cui i neroazzurri han bisogno là davanti, in un reparto che può contare solo sugli ultratrentenni Palacio e Milito.
La speranza quindi è che Icardi si ravveda e che finalmente il matrimonio sportivo con l'Inter possa essere celebrato, almeno finché Social non ci separi.

TALENTO - Esultanza dopo il gol del pareggio con la Juventus

SEMBRA IMPOSSIBILE MA IN QUESTA FOTO CI SONO PIU' DI 500 GOL

BOMBERS - Bobo Vieri e Filippo Inzaghi sempre in splendida forma 

GIOVANI TALENTI: KEITA BALDE' DIAO

Keita Baldé Diao nasce ad Arbùcies (Catalogna) l'8 marzo 1995 da genitori senegalesi.
Viene notato dal Barcellona giovanissimo ed entra a far parte del floridissimo vivaio blaugrana. Sembra la solita storia dei giovani "culés" che percorrono tutto il settore giovanile per arrivare in prima squadra e prendere il posto del loro idolo, ma questa volta il destino vuole che vada diversamente. 


BLAUGRANA - Un giovanissimo Keita ai tempi del Barcelona
E' il 2010 quando il giovane Keita, all'epoca quindicenne durante un torneo in Qatar decide di infilare dei cubetti di ghiaccio nel letto di un suo compagno di squadra; la bravata costa cara al ragazzo, che viene costretto a trasferirsi obbligatoriamente al Cornellà, una società satellite, per una stagione. Tanto basta al ragazzino per giganteggiare mettendo a segno 47 reti e decidere di staccare il cordone che lo lega al Barcellona; troppo grande l'affronto, troppo poco l'affetto a lui dimostrato, a differenza di Igli Tare. Il ds della Lazio rimane stregato dalle potenzialità del ragazzo e vuole a tutti i costi metterlo sotto contratto. Fortunatamente per il mondo biancoceleste l'impresa riesce e nonostante l'anno di inattività forzata a causa del suo status di extracomunitario il sedicenne Keita è ufficialmente un giocatore laziale. Nella stagione 2012-2013 Keita mette in luce tutte le sue qualità e trascina, insieme all'amico ex Barcellona Tounkara, la primavera della Lazio verso lo scudetto di categoria. Ai piani alti si accorgono di lui e Petkovic non può fare altro che aggregarlo alla rosa della prima squadra. La sua abilità con ambo i piedi, la sua devastante velocità e una buona tecnica di base gli danno la capacità di spaccare letteralmente le partite e l'impatto è impressionante. Nella prima parte di campionato disputa 11 partite realizzando 3 gol, uno più bello dell'altro (vedi il gol al Napoli in cui scarta tutta la difesa prima di scaricare un destro potentissimo all'incrocio). Petkovic o il subentrato Reja non possono fare altro che dargli sempre più spazio ed ora Lotito si coccola stretto stretto il piccolo campioncino sfregandosi già le mani in previsione dei futuri guadagni.

PROMESSA - Keita in maglia biancoceleste

REPORT: ATLETICO DE MADRID

Talmente stupefacenti tanto da guadagnarsi i complimenti pubblici da (un impaturito) Galliani.
La più grande sorpresa calcistica a livello europeo  è sicuramente l'Atletico Madrid guidata dal "Cholo" Diego Pablo Simeone.
In un campionato come la Liga spagnola dominato dal duo Barcelona-Real Madrid da quasi una decade (unica eccezione il campionato 2007-2008 in cui il Villareal si classificò secondo alle spalle del Real, ma comunque i blaugrana si piazzarono subito dietro), la squadra meno nobile di Madrid sta stupendo il mondo intero riuscendo dopo ventidue giornate a conquistare il primato solitario. Orfano a causa della partenza nel mercato estivo del loro diamante più brillante, ovvero quel Radamel Falcao che ha preferito i (tanti) milioni del Monaco al progetto "colchonero", l'Atletico è ripartito più forte di prima reinvestendo il denaro sull'esperienza di David Villa, prelevato per un tozzo di pane dal Barcelona e Alderweireld, solido difensore belga dall'Ajax, ma soprattutto il vero punto di svolta è stata la maturazione di Diego Costa che con i suoi 24 gol in 25 presenze, compresi i 3 in Champions League sta diventando l'oggetto del desiderio di tutte le big europee (soprattutto il Chelsea di Mourinho).  Il segreto del successo però non si trova in campo, ma siede in panchina e si chiama Diego Pablo Simeone. Arrivato nel dicembre 2011 alla prima stagione vince già l'Europa League sconfiggendo nettamente l'Athletic Bilbao per 3-0 nella finalissima disputata a Bucarest. 
IL MISTER - "El Cholo" Diego Pablo Simeone

Il suo 4-4-2 quasi scolastico ha portato compattezza ad una compagine senza grandi nomi, ma con giocatori propensi al sacrificio. Il "Cholo" è riuscito nell'impresa di disciplinare Arda Turan, turco geniale ma troppo discontinuo nelle stagioni precedenti, ora perno fondamentale e assist-man imprescindibile nell'undici di partenza. La difesa a zona ed i giocatori tutti dietro la linea della palla pronti a ripartire esaltano le caratteristiche della coppia Godin-Miranda, soprattutto il secondo impressiona per la sua eleganza e la tempestività nelle chiusure. Tiago, macchinosissimo regista portoghese ex Juventus sta vivendo una stagione da incorniciare, come l'emergente Koke, 22enne di cui sentiremo parlare e il sempre verde David Villa. "El Guaje" sta vivendo una seconda giovinezza diventando la spalla perfetta per Diego Costa e togliendosi anche la soddisfazione d'insaccarla per 11 volte in campionato. 

MODULO - Il 4-4-2 con marcatura a zona dei "Colchoneros"

All'ombra di tutti questi "mostri sacri" sta crescendo pure Oliver Torres, classe '94 in questa stagione in prestito al Villareal;  "il nuovo Xavi"  come viene soprannominato sta già scalando le selezioni giovanili spagnole arrivando fino all'under 21. L'Atletico Madrid è ancora in corsa in tutte e tre le competizioni: primo in campionato, ottavi di finale di Champions League contro il Milan e semifinalista in Coppa del Re contro il Real Madrid. Febbraio sarà un mese che dirà tanto sulle ambizioni madridiste, ma sicuramente nessun membro dell'armata Simeone vorrà smettere di sognare.

Tiago, Godin, Diego Costa esultano in occasione di un gol

PERCHE' SEGUIRE IL MODELLO DEL CALCIO TEDESCO

Negli ultimi anni il calcio italiano ha perso parecchio appeal nei confronti degli altri principali campionati europei e campioni come Ibrahimovic ed Eto’o hanno preferito emigrare piuttosto che rimanere nel nostro campionato.
Ma siamo sicuri che questo declino non possa essere trasformato in qualcosa di positivo?
Il calcio tedesco ad inizio anni 2000 ha avuto una flessione molto simile alla nostra, con le principali squadre di club come Bayern Monaco e Borussia Dortmund che erano puntualmente e facilmente surclassate dagli altri top team europei. Prima della finale di Champions League di quest’anno, l’ultimo successo nella massima competizione del nostro continente di una squadra tedesca risaliva addirittura alla stagione 2000-2001, quando a San Siro il Bayern sconfisse ai calci di rigore il Valencia di Hector Cuper.
Le cause della rinascita del calcio tedesco sono molteplici e facili da individuare se si paragonano i bilanci delle società tedesche con quelli delle società italiane.
Il primo dato da analizzare è quello riguardante i ricavi derivanti dagli stadi: In Germania i ricavi totali sfiorano i 385 milioni di euro, mentre in Italia la cifra si avvicina a malapena alla metà nonostante il prezzo medio di un biglietto per assistere alla partita sia inferiore. Questo dato è sicuramente condizionato dalla maggiore affluenza media del pubblico tedesco che nel 2011-2012 ha toccato la cifra record di 45.116 persone di media a partita, contro la miseria di 22.005 spettatori per incontro in Italia (-6,5% rispetto alla stagione precedente). Per fare un esempio, il Milan è la squadra con l’affluenza media più alta in Italia, 48.487 spettatori (55% del riempimento totale), ma non si avvicina nemmeno minimamente al Borussia Dortmund che nell’ultima stagione ha realizzato una cifra di 80.521 persone a partita (93% del riempimento totale). Gli stadi tedeschi godono, oltre ad una maggiore capienza, anche di una maggiore modernità nei servizi per merito delle ristrutturazioni fatte in vista dei Mondiali di Germania del 2006; ben 7 impianti infatti sono stati ristrutturati mentre 5 sono stati costruiti apposta per l’evento planetario, tra cui l’Allianz Arena, il gioiellino da 70.000 posti del Bayern Monaco.
Un secondo dato importante è il confronto dell’età media dei calciatori presenti nelle due massime serie.
Anche qui la Bundesliga si dimostra all’avanguardia con un’età media di 25,66 anni contro il 27,54 della Serie A, che è inoltre il valore più alto considerando tutti i più importanti campionati europei. Questo dato è da collegare alla percentuale di calciatori provenienti dalle giovanili, che in Germania raggiunge il 16% del totale mentre in Italia “solo” il 7%. Questi dati sicuramente rafforzano l’idea che le società della massima serie italiana siano restìe a lanciare i giovani provenienti dai loro vivai, spesso utilizzando la motivazione della paura di bruciarli prematuramente, mentre il caso tedesco afferma esattamente l’opposto dato che negli ultimi anni dalle giovanili teutoniche sono usciti giocatori del calibro di Ozil, Neuer, Muller, Gotze e Reus solo per citarne alcuni. Da evidenziare anche il dato riguardante ai calciatori stranieri presenti nel campionato: 48,7% per la Serie A contro il 44,8% della Bundesliga.
Un’ultima analisi riguarda il gettito fiscale che penalizza pesantemente il calcio italiano. La cifra che le società italiane hanno dovuto sborsare nei confronti del fisco quest’anno tocca la clamorosa quota di 904 milioni di €, con un aumento di 200 milioni negli ultimi 5 anni, contro i 719 milioni di € delle società tedesche. E’ chiaro che tutto ciò abbia un impatto nettamente diverso sui rispettivi bilanci e permetta quindi alle società tedesche di avere maggiore liquidità e di essere più competitive nel campo dei trasferimenti.
Per rilanciare il calcio italiano emulando quello tedesco è quindi necessario lavorare su questi tre aspetti: stadi di proprietà o almeno ristrutturati che attirino una quantità sempre maggiore di spettatori; ringiovanire le rose dando più spazio ai giovani talenti provenienti dai vivai; diminuire il gettito fiscale nei confronti dei club.
Bisogna sperare che le società italiane non perdano tempo e soprattutto opportunità per rilanciare un campionato che ormai si sta allontanando sempre di più dall’olimpo del calcio che conta.


(fonti Report calcio tedesco ed italiano 2013)

SPETTACOLARE - L'Allianz Arena "casa" del Bayern Munich






NII LAMPTEY - DA NUOVO PELE' A SCHIAVO DEL CALCIO MODERNO

Nii Lamptey nasce ad Accra (Ghana) il 10 dicembre 1974 e cresce con un unico sogno, quello di diventare un calciatore professionista per scappare dalla condizione di povertà in cui vive.
La sua carriera è quella della classica promessa sfumata costretta a girare il mondo:
cresce in un ambiente difficile, subendo ripetuti abusi da parte dei genitori che così facendo lo portano ad isolarsi, trovando nel calcio l'unica via di fuga. Gioca a calcio tutti i giorni dormendo addirittura per strada per la paura di tornare a casa.
A soli 14 anni gioca il suo primo Mondiale Under-16 con le stelle nere ben figurando e guadagnandosi la nomina di "nuovo Pelè" proprio da O'Rey in persona.
Si mette in luce ai Mondiali Under-17 del 1991 (competizione che vedeva giocatori del calibro di Alessandro Del Piero, Marcelo Gallardo e Juan Sebastian Veron) conducendo a suon di reti il Ghana alla vittoria finale.
Nel 1990 ha la grande occasione di giocare in Europa, lo vuole l'Anderlecht in Belgio, ma la federazione ghanese si oppone ritirandogli il passaporto e "costringendolo" a scappare prima via taxi fino al confine e poi a piedi nella foresta per arrivare a Lagos, in Nigeria e da lì partire per il vecchio continente.
Fino al 1993 gioca  nell'Anderlecht anche se la sua migliore stagione rimane la prima quando esordì giovanissimo in prima squadra segnando 7 gol in 14 partite. Non è una vera e propria prima punta, ma era considerato più che altro come un promettentissimo trequartista dato anche il suo fisico minuto (alto solo 173 centimetri). Nella stagione 1993/1994 arriva la grande occasione: il trasferimento in Olanda al PSV dove gioca la sua migliore stagione con 22 presenze e 9 gol.
Da qui in poi il declino e Nii comincia a girovagare come fosse un pacco postale: si affida a un agente italiano, Antonio Caliendo, che invece di aiutarlo lo tratta "come una pezza da piedi" (come riferisce un agente tedesco durante il documentario dedicato a Lamptey, "Der afrikanische Pelé", il Pelé africano, trasmesso dal canale televisivo WDR) sfruttando la sua condizione di analfabeta (non sapeva nè leggere nè scrivere) dovuta alla difficile infanzia. Nel settembre del '94 l'Aston Villa in Premier League si fa avanti ma è un disastro, solo 6 presenze e nessun gol. L'anno successivo comincia ancora con i Villans per poi passare al Coventry ma il risultato non cambia: Lamptey non è tagliato per il calcio inglese. L'anno successivo arriva in Serie A a Venezia ma i risultati non migliorano, cinque presenze e zero gol. Nel 1997 finisce in Argentina, all'Union de Santa Fé: qui nasce il suo primo figlio che chiamerà Diego. Qui oltre alla sfortuna del calciatore entra in gioco anche la tragedia umana, il bambino infatti morirà presto a causa di una rarissima malattia. Il morale di Lamptey è a pezzi e a peggiorare le cose ci si mette il governo del Ghana che rifiuta la richiesta del giocatore di seppellire il figlio in Africa a causa delle discussioni che avevano portato il giocatore ad abbandonare la nazionale. Il ghanese lascia per un attimo il calcio per poi ricominciare subito, prima in Turchia all'Ankaragücü (tardo 1997) e l'anno dopo in Portogallo all'União Leiria. Dopo l'esperienza portoghese trova un agente tedesco che lo porta a giocare in Germania al SpVgg Greuther Fürth, squadra di serie B tedesca: qualche fiammata ma troppo isolata e lui non riesce ad adattarsi ne' al campionato ne' alla realtà tedesca. Qui è addirittura ignorato dai suoi compagni di squadra tanto che uno di loro si rifiuterà di dormire nella stanza d'albergo con lui. Nasce la sua seconda figlia; ma il destino sembra accanirsi con il povero Nii: anche lei muore poco tempo dopo e anche a lei viene negato l'espatrio in Ghana per il funerale. Dopo una brevissima parentesi in Polonia al Groclin, Lamptey parte alla volta dell'Asia, prima in Cina, allo Shandong (dove finalmente ritrova la forma,l'affetto dei tifosi e dei critici) e poi negli Emirati Arabi al Al-Nasr. Nel settembre del 2005 riesce a ritornare in Ghana (primo giocatore ghanese famoso in Europa a tornare a giocare nel suo paese d'origine) al Kumasi Asante Kotoko per terminare la carriera nel 2008.
In un'intervista rilasciata per un documentario tedesco "Der afrikanische Pelé" afferma di non sentirsi un perdente, ma quasi un soravvissuto. Ora ha fondato una scuola calcio che porta il suo nome e che è tutto il suo orgoglio perchè lui sa che, nonostante tutte le sfortune avute nella vita, bisogna sempre rincorrere i propri sogni cercando di trasformarli in realtà, nonostante tutto, più forte di tutti.

Nii Lamptey - "reduce" del calcio moderno